Damiana Patrimia 23/02/2019
Sita dalla prima metà dell’Ottocento all’ingresso del cimitero
di Lecce, la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo con l’annesso
convento degli Olivetani, sorse nel 1180 sull’area del tempio
bizantino, esistente già nel 1082, dedicato a S. Nicola di Myra.
Il complesso fu realizzato per volontà di Tancredi d’Altavilla
(1140-1194), Conte di Lecce e Re di Sicilia dal 1169 al 1194,
cosi com’è scritto sulle architravi dei due portali della chiesa,
che dell’originaria struttura e decorazione romanica conserva
ben poco, ossia il piccolo rosone, la cupola che a malapena si
intravede, il campanile a vela e i due portali. Diversi sono stati
nei secoli i rifacimenti e i restauri subiti dalle sacre costruzioni,
ma l’intervento più evidente si coglie nella facciata che nel
1716 venne ristrutturata probabilmente dal celebre architetto
leccese Giuseppe Cino, con gusto barocco.
Il tempio voluto da Tancredi fu dedicato a S. Nicola ed anche
a S. Cataldo a ricordo, secondo la leggenda, di un miracolo
che questo santo avrebbe fatto salvando il Conte leccese da
un naufragio allorché egli ritornava dalla Grecia, episodio che
è illustrato da un residuo di affresco che si scorge, in basso,
nella navata di destra della chiesa.
L’architettura della sacra costruzione è quella introdotta
dai Normanni, che ben si coniuga con gli elementi indigeni
e che tiene insieme lo stile romanico con motivi bizantini
e mussulmani dando cosi luogo ad una struttura unica e
tipicissima.
Il prospetto della chiesa, di cui non si conosce il nome
dell’architetto, è a due ordini conclusi; il primo piano è
scandito da sei paraste scanalate, ornate da capitelli, tra le
quali, su mensole, appaiono quattro statue di santi, ma il più
splendido ornamento di questo tempio almeno per ciò che
resta, è costituito dalle decorazioni geometriche, fitomorfe,
zoomorfe e da piccole figure dei due portali, ancora in buono
stato di conservazione, ma il principale, in buona parte rifatto
dopo essere stato distrutto per collocarvi due figure, sviluppa
un arco a doppia cornice con il ricchissimo motivo ornamentale
di foglie.
Più su, sull’architrave dell’ingresso si legge l’iscrizione che
tramanda la volontà di Tancredi. Sopra l’epigrafe latina si
scorge il cornicione scolpito dove, tra foglie, appaiono sei
teste muliebri. La lunetta che sovrasta l’architrave conteneva
l’affresco raffigurante la Vergine col Bambino seduto sulle
ginocchia, in mezzo due angeli che reggevano un alto
postergale. Attualmente la scena si intravede appena dalla
sbiadita sinopia.
Sul lato destro della chiesa, nel cortile del convento, si apre il
secondo portale, decorato come il primo, sull’architrave del
quale vi è una seconda iscrizione, sempre in latino, e nella
lunetta la sinopia fa intravedere l’immagine di S. Nicola. Di
notevole valore decorativo nel secondo ordine è l’originario
rosone centrale, elegantemente intagliato nella morbida pietra
leccese, e poi le sei statue di santi benedettini che come quelle
del piano inferiore, sono di fattura settecentesca.
Certamente interessante è la cupola per la sua forma di prisma
ottagonale decorato da arcatelle che corrono nel coronamento
di tutto l’edificio e che si riproduce anche nella base del
campanile ricostruito nei primi anni del secolo scorso.
L’interno della chiesa ha forma basilicale, a tre navate, con
otto colonne polistile, quattro per parte, sorrette da pilastri,
alle quali sono addossate semicolonne reggenti le arcate che
si diramano in tutti i sensi per dare sostegno ai muri della
navata centrale, dei fasci che realizzano la volta arcuata,
delle campate che scompartiscono le navate laterali con volta
a crociera. Nell’architettura di questo tempio, non è ozioso
ribadirlo, si fondono e si armonizzano elementi del romanico
franco-borgognone, siciliano e spunti dell’arte araba bizantina,
di quest’ultima si nota l’incrociamento della nave trasversale
con la longitudinale, nel cui punto di intersezione si innalza la
cupola della quale abbiamo già detto. In essa si aprono quattro
finestre, e fra l’una e l’altra sono raffigurate le armi della Casa
d’Aragona e, nel tamburo Il Transito e l’Incoronazione della
Vergine, mediocri affreschi realizzati tra il XV e XVI secolo.
Distrutti gli affreschi originari restano in parte quelli effettuati
tra il 1616 e il 1619.
Si tramanda che l’altare maggiore fu spostato nel Settecento
e fu distrutta l’abside per costruire, l’ampio coro rettangolare
da cui si accede nella sacrestia, che rovinò in seguito ad un
tremendo nubifragio accaduto il 28 ottobre 1570. La nuova
sacrestia venne ricostruita dieci anni dopo. Il coro che la
precede possiede affreschi di Santi e di Monarchi, come S.
Giovanni Meda, S. Guglielmo di Vercelli, S. Pietro celestino,
S. Francesca Romana, Re Alfonso I di Lusitania, Cosimo I
de’ Medici, Dionisio re di Portogallo, etc. Nel coro, ancora,
si notano il monumento sepolcrale a Don Paolo Carpentieri,
abate olivetano del 1642, e la tomba dell’abate Don Antonio
Pezzino, nonché le statue lapidee di S. Giacomo e Santa
Francesca Romana.
Nella chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo si notano ancora le statue
in pietra leccese di S. Nicola, opera cinquecentesca attribuita
a Gabriele Riccardi e di S. Francesca Romana, nonché i due
quadri di Giovan Battista da Lama, del Seicento raffiguranti
l’Apparizione di S. Benedetto a S. Francesca Romana e i SS.
Niccolò e Cataldo. Si nota poi il cenotafio del poeta leccese
Ascanio Grandi.
Come si può constatare abbiamo detto di opere che non hanno
nulla da spartire con l’arte romanica, ma che nel tempo si sono
via via aggiunte o sovrapposte. Va detto ancora che il tempio
si dota di quattro altari, delle cinquecentesche acquasantiere
e di non poche iscrizioni latine che altrove ho ricostruito e
tradotto, al pari di quelle chiese e monumenti leccesi.
Insieme alla chiesa il Conte di Lecce, Tancredi, fece costruire
anche il monastero che concesse ai Benedettini Neri i quali
col tempo riedificarono questa loro sede, e che egli dotò
di feudi e sedi stabili. Nel 1494 il re Alfonso d’Aragona ai
Benedettini Neri sostituì gli Olivetani che vi risedettero fino
alla soppressione murattiana, nei primi anni del XIX secolo.
Anche gli Olivetani rifecero il convento cancellando ogni
traccia dell’antico. La dimora fu sede di una importante
biblioteca, di studi scientifici, teologici e filosofici, espresse
ecclesiastici di rilievo di cui una quindicina di loro divennero
Vescovi.
L’ampiezza della vista di cui si poteva godere dal grande
terrazzo che corre esternamente lungo tutta la galleria
dell’ultimo piano dell’edificio poteva essere in sintonia con la
floridezza economica del monastero sotto gli Olivetani ed era
proporzionata all’entità dei suoi beni patrimoniali. Lo studio
e la preghiera, coltivati nel silenzio e nella solitudine, non
impedivano al monastero di ricevere le attenzioni della città
di Lecce, dei suoi tanti artisti che ivi profusero